Settanta candeline per l'ecumenismo

Il pastore luterano norvegese Olav Fykse Tveit presiede, dal 2010, il più grande organismo ecumenico mondiale

05 giugno 2018

(nev/riforma.it) Il Consiglio ecumenico delle Chiese CEC, la più ampia e inclusiva tra le molte organizzazioni ecumeniche, festeggia quest’anno i suoi primi 70 anni, essendo stato fondato nel 1948 ad Amsterdam. Il prossimo 21 giugno papa Francesco visiterà la sede del CEC a Ginevra.

Olav Fykse Tveit, qual è lo stato di salute del Consiglio ecumenico, oggi?
Il CEC compie 70 anni, dunque un’età da persona anziana e pensionata. Ma il CEC è tutt’altro che questo: direi che è vivo e vitale, e il suo ruolo viene riconosciuto a livello internazionale quale interlocutore serio e credibile di fronte alle sfide delle società e delle chiese. Attorno al CEC, alle sue commissioni, alle sue persone, vi sono grandi aspettative in molte parti del mondo, forse anche superiori rispetto alle nostre reali capacità. Ma è il segnale che gli sforzi che ci caratterizzano nell’implementare il dialogo ecumenico e la riconciliazione fra realtà in conflitto vengono riconosciuti come importanti nei percorsi di crescita delle società.

Olav Fykse Tveit, segretario generale CEC

Come è cambiato il movimento ecumenico in questi 70 anni?
Tutto è cambiato. Il CEC è nato all’indomani del secondo conflitto mondiale, e su quelle ceneri ha ripreso discorsi già intrapresi nei decenni precedenti. C’è stata quindi la guerra fredda, l’isolamento delle nazioni dell’est Europa e la conseguente repressione delle chiese nazionali. In quel periodo il CEC è stato fra i pochi interlocutori riconosciuti quali fautori di una reale cooperazione. Oggi le sfide sono altre, alcune ancora figlie di quel periodo: penso alla situazione in Medio Oriente, ma anche ai conflitti che ancora caratterizzano l’Africa post coloniale. Per quel che riguarda il dialogo ecumenico fra le varie anime del cristianesimo, passi in avanti sono stati fatti, molti punti di unità sono stati trovati, anche se manca ancora la piena comunione, cui dobbiamo continuare a tendere.

La Chiesa cattolica non è parte del CEC, ma pare guardare con crescente attenzione al fermento in corso. La prossima visita di papa Francesco alla vostra sede di Ginevra si inserisce in qualche modo in questo filone?
La visita del pontefice è un segnale di riconoscimento da parte del mondo cattolico: riconoscimento che esiste un movimento ecumenico mondiale, cui anche la chiesa cattolica partecipa. Francesco stesso ha più volte affermato che dobbiamo lavorare insieme, che vi sono spazi per ciò. Da oltre trent’anni almeno, il Vaticano opera a stretto contatto con il Consiglio ecumenico e partecipa come osservatore a tutte le principali conferenze del CEC. Il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani inoltre nomina 12 membri all’interno della commissione Fede e Costituzione, creata dal CEC nel 1948, oltre a partecipare ad alcuni altri organismi ecumenici a livello regionale e nazionale. La visita a Ginevra accenderà i riflettori del mondo su di noi e la nostra agenda. Mi pare un’opportunità importante da cogliere, così come lo è stato il cinquecentenario della Riforma protestante nel 2017, che ha evidenziato la voglia di unità pur nelle diversità riconosciute.

Francesco stringe la mano a Martino (Segni dei Tempi RSI La1)

Il CEC è impegnato tramite commissioni e continui appelli nel tentativo di trovare una soluzione alla situazione in Medio Oriente, dalla Palestina alla Siria, passando per l’Iraq e gli altri scenari di guerra. Che ruolo assumete in quegli scenari?
Veniamo in qualche maniera identificati quali facilitatori, capaci di creare un terreno neutro in cui far dialogare le parti in causa. Non dobbiamo mai stancarci di esser costruttori di pace, portatori di speranza anche laddove sembra non essercene più. E non solo certo per i tanti cristiani che in Medio Oriente soffrono, ma per l’intera popolazione, perché è solo di fronte ad una reale e completa pacificazione che si potrà costruire una società nuova, inclusiva e non esclusiva. La gente in Siria, in Iraq, in Palestina ha sofferto troppo. È ora di creare le condizioni per fare di quelle terre, che sono la culla del cristianesimo, un luogo di pace ed esempio per l’intera umanità. Usare soltanto la forza non serve a nessuno, vi sono troppi squilibri fra chi possiede eserciti e tecnologie avanzate e chi no, le forze in campo sono troppo divergenti. Per questo, solo facendo tacere le armi si può tentare di avviare un dialogo reale che deve necessariamente passare attraverso il riconoscimento dell’altro.

Il Consiglio ecumenico delle chiese CEC riunisce oltre 350 chiese in rappresentanza di oltre 500 milioni di cristiani in 110 nazioni. Include la maggior parte delle chiese ortodosse, anglicane, battiste, luterane, metodiste e riformate, nonché molte chiese unite e indipendenti. In origine la maggior parte delle chiese fondatrici erano europee e nord americane, mentre ora la preminenza maggiore arriva dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, dai Caraibi.

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