MLK il sogno e le ombre

Il grande sogno di Martin Luther King e le ombre e gli interrogativi di oggi

02 aprile 2018

La figura di Martin Luther King continua a scuotere le coscienze di un mondo che ancora conosce teorie e prassi che si rifanno alla superiorità razziale. E come sempre davanti a questi personaggi simbolo della pace, della lotta nonviolenta per la giustizia e i diritti, ci si chiede se la loro azione abbia portato frutti fecondi o se non si debba decretarne il fallimento.
Paolo Naso, docente all'Università La Sapienza di Roma, autore di vari saggi sulla vicenda del predicatore afroamericano leader del movimento per i diritti civili, afferma che "King ha accelerato un processo che preesisteva, non lo ha iniziato dal nulla. Possiamo perciò affermare che non è stato King a creare il movimento per i diritti civili, ma è stato il movimento a creare Martin Luther King". Rivisitati mezzo secolo dopo, gli anni di King appaiono come un periodo che ruppe lo schema razziale che governava la società americana.

Selma, 27 aprile 1965

Quella del grande predicatore afroamericano è l’icona alla quale ancora oggi guarda l’America che non si rassegna a quel residuo di razzismo che, negli anni di Donald Trump, rischia di essere rilegittimato. "Qualcuno ha detto che il razzismo resta il peccato originale dell’America", dice Paolo Naso, "King, da pastore qual era, lo ha denunciato con la Bibbia in una mano e la Costituzione americana nell’altra".

Memphis, 4 aprile 1968

Cinquant'anni fa, il 4 aprile del 1968, Martin Luther King jr. veniva assassinato con un colpo di fucile al Lorraine Motel di Memphis. Il giorno prima, l'uomo-simbolo della lotta contro la segregazione razziale, aveva tenuto il suo ultimo discorso pubblico e aveva accennato alle minacce di morte sempre più incombenti. Aveva detto: "Mi piacerebbe vivere una lunga vita. Ma non me ne preoccupo ora. Voglio solo fare la volontà di Dio, che mi ha permesso di salire sulla montagna. E ho guardato oltre. E ho visto la terra promessa".

Paolo Naso, nel discorso pronunciato la sera prima di venire assassinato, King ha usato alcune metafore che appartengono al linguaggio simbolico del protestantesimo americano. Ce ne potrebbe spiegare l'origine e il significato?
Martin Luther King è figlio di una tradizione culturale e religiosa specifica, quella delle “black churches” nate nel contesto del sistema schiavistico prima e delle politiche di segregazione dopo. Al tempo stesso è un interprete di una “narrazione” anche teologica che fa degli Stati Uniti un paese del tutto particolare. Nella metafora contenuta in alcune biografie, si raffigura King che tiene la Bibbia in una mano e la Costituzione degli Stati Uniti dall’altra. Vuol dire che, diversamente da altre componenti del civil rights movement - ad esempio Malcolm X -, egli non si colloca fuori dal contesto di valori alla base della società americana, ma li reinterpreta in una chiave inclusiva, antirazzista e democratica. Il celebre discorso pronunciato la sera prima dell’omicidio si colloca in questo schema: racconta il cammino del popolo afroamericano e lo associa all’esodo degli ebrei che fuggendo dall’oppressione del Faraone, cercano la terra promessa. Per capire King e il suo successo anche in alcuni settori della società bianca, dobbiamo quindi collocarlo al centro della confluenza di due fiumi: quello della tradizione afroamericana e quello della tradizione dei padri pellegrini puritani. Nel suo famoso discorso del 1963 - pronunciato a Washington -, King ricorda che l'anelito alla libertà era il nucleo fondativo degli Stati Uniti e che la segregazione razziale rappresenta il più grande tradimento degli ideali costituzionali. Il suo sogno non è altro che il ripristino di una promessa che è poi la promessa di Dio nella storia.

La vera storia di "Ho fatto un sogno"

Cinque anni prima, nell'agosto del 1963, al termine della imponente marcia per i diritti civili degli afroamericani a Washington, Luther King aveva pronunciato il memorabile discorso "Ho fatto un sogno".
"I have a dream, io ho un sogno - disse - che un giorno i miei quattro figli piccoli vivranno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi".

Washington, 28 agosto 1963

Paolo Naso, quanto è distante il discorso pronunciato da King a Washington nel 1963 dalla politica attuale del presidente americano Donald Trump?
Il discorso del ’63, noto per il famoso “sogno”, esprime al meglio le radici culturali e religiose di King. Quel discorso, lo sappiamo, si apriva con un riferimento alla Dichiarazione d’indipendenza la quale definiva “autoevidente” che “tutti gli uomini sono creati uguali” e a loro sono garantiti principi fondamentali quali “il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”. King spiegava che quell’affermazione era come un assegno, ma per oltre venti milioni di afroamericani quell'assegno era ancora “scoperto”: un inganno che tradiva l’anima e lo spirito dell’America, i valori fondamentali che stavano alla base del “sacro esperimento di libertà” a cui le prime colonie avevano inteso dare vita.
L'attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, segna una clamorosa frattura rispetto a questa “narrazione” che anche presidenti decisamente conservatori come Ronald Reagan o George W. Bush avevano in qualche modo fatta propria. Certo, le loro politiche sono state in aperta contraddizione con questa visione ma, sottotraccia, essa ha continuato a vivere. Il grande interrogativo che si pone è se Trump sia un fenomeno transitorio ed effimero o se davvero chiuda un grande racconto dell’America e dei suoi valori, un racconto carico di contraddizioni e limiti, ma che nei decenni ha continuato a ispirare movimenti “dal basso” che hanno dato forza e vitalità alla democrazia americana.

Martin Luther King si rifaceva alla nonviolenza di Gandhi per definire la sua lotta contro la segregazione razziale. Che contributo ha portato alla teoria e alla prassi della nonviolenza?
King seppe di Gandhi e delle sue tecniche già ai tempi del college, frequentando professori che avevano avuto contatti con l’India. Ma non furono certo queste nozioni teoriche alla base della sua strategia nonviolenta. A mio avviso, all’inizio ci fu soprattutto una suggestione evangelica, l’idea che il fine coincide con i mezzi che si adoperano per raggiungerlo. È col tempo, e soprattutto nell’incontro con Jim Lawson - un giovane metodista nero finito in India per avere obiettato ai tempi della guerra di Corea - che King comprende meglio il senso e le tecniche nonviolente. Appena si incontrarono, King fu colpito dall’intelligenza politica di questo giovane e lo inserì nel suo staff, facendone l’interlocutore primario dei giovani e degli studenti più radicali e talora orientati all’uso di metodi violenti. In questo passaggio, da semplice norma evangelica la nonviolenza diventa una strategia che in breve produce un ampio consenso inter-razziale e costringe il potere razzista a esprimersi nella sua forma più violenta e spietata. Le immagini delle brutali cariche della polizia contro i manifestanti nonviolenti che il 7 marzo del 1965 marciavano sul Pettus Bridge da Selma a Montgomery, segnarono una clamorosa disfatta morale dell’ordine costituito e determinarono la nascita di un “fronte della coscienza” assai ampio e rappresentativo delle diverse anime dell’America. Negli ultimi anni della sua vita King radicalizzò non poco le sue posizioni.

In che misura l'opposizione alla guerra nel Vietnam segnò - e come - il pacifismo radicale di King?
La guerra in Vietnam cambiò King e il suo movimento, ma anche tutta l’America. Per il pastore di Atlanta, la svolta fondamentale fu resa pubblica nel 1967 con un famoso discorso pronunciato nella chiesa di Riverside Drive a New York, un tempio del protestantesimo liberal (e allora anche bianco) fortemente influenzato dalla vicinanza con il seminario di Union dove insegnavano i nomi più brillanti della teologia protestante americana del tempo, a iniziare dai fratelli Reinhold e Richard Niebuhr. In quel discorso - che merita attenzione quanto il celebre “I have a dream” del 1963 -, King denunciò l’intreccio tra militarismo, colonialismo e razzismo, tre aspetti di un sistema di potere che stava divorando l’anima dell’America.

Finché avventure come quella in Vietnam continueranno a distruggere uomini, competenze e denaro, l’America non potrà dedicarsi alla riabilitazione dei suoi poveri. Noi stiamo mandando dei giovani neri a garantire nel sudest asiatico le libertà che essi non hanno mai trovato in Georgia o a Harlem

In quel frangente il giudizio di King sull’America e la sua possibilità di redenzione dal peccato del razzismo si fa più severo. L’immagine è quella di un palazzo che sta per crollare e che non può restaurarsi con una imbiancatura superficiale. Il nodo politico è che, a due anni dall’ottenimento del diritto di voto e a qualche anno in più dalla fine del segregazionismo, il razzismo era ancora radicato nella società americana: i neri erano sottopagati, venivano discriminati anche quando avevano titoli di studio superiori, tra di essi si registravano i tassi di povertà e analfabetismo più alti. La domanda doverosa e legittima, allora, era a che cosa fossero serviti anni di mobilitazioni, sacrifici, lotte, detenzioni. Per King, pressato dai movimenti più radicali sopravvissuti alla morte di Malcolm X, fu il periodo più difficile.

Paradossalmente la sua vittoria sul tema del voto agli afroamericani aveva segnato anche la crisi del suo progetto politico, che andava ridefinito. La denuncia della povertà diffusa che affliggeva anche tanti bianchi e di un paese che investiva risorse nella guerre esterne ma non sapeva vincere quella interna per la giustizia economica, diventarono così gli assi di una nuova fase del suo movimento, che si sarebbe dovuta concludere con una grande marcia su Washington. È in questo quadro che va collocata la presenza di King e del suo staff a Memphis il 3 aprile del 1968: per sostenere lo sciopero di netturbini sottopagati. E se ancora oggi vogliamo provare a capire “chi” e “perché” abbia ucciso King, è da qui che dobbiamo partire. (fonte: "Il Trentino", adat. P. Tognina)

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